VINCENZO ARENA
Strutturalismo Modulare
Opera - 1 - 1971b
Il lavoro di Vincenzo Arena è radicale e procede con un metodo franco. Allo stato attuale mira a proteggere l’esistenza di un uomo, ma anche a illuminare un’epoca di rivoluzione, la seconda meta del XX secolo, in cui gli esseri umani hanno rotto con molte delle loro abitudini percettive.
In particolare, nuovi poteri tecnici li hanno invitati a costruire oggetti sonori la cui struttura non era udibile; e anche oggetti visivi la cui struttura non era visibile: poiché non si sente tutto ciò che è sonoro, e non si vede tutto ciò che è visivo. Il cervello dell’uomo, come quello di tutti gli animali è stato selezionato in milioni di anni di evoluzione per rinforzare nell’ambiente ciò che contribuisce alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, e per trascurare, e anche cancellare, il resto.
Questa messa in evidenza utilitaria è una legge generale dei sistemi nervosi. Non è dunque sufficiente che un computer e un sintetizzatore costruiscano una struttura sonora perchè la si senta, né una struttura visiva perchè la si veda. Anche se questa struttura è molto semplice matematicamente o fisicamente.
Non vi è nulla di più semplice che rigirare le note di una melodia dalla fine all’inizio; eppure noi non percepiamo questa inversione come tale, anche se la leggiamo con un’occhiata sullo spartito.Per lo stesso motivo, io non cambio nulla alla struttura matematica o fisica di un quadro di Mondrian capovolgendolo. E tuttavia è radicalmente cambiato per la mia visione di primate eretto che pondera diversamente i tragitti alto-basso e basso-alto. Al punto che un “buon” Mondrian di cui si cambia l’orientamento sembra generalmente “brutto”.
Ciò non aveva creato problemi a Homo fino a ieri. Le strutture visive che egli produceva erano di solito quelle percepite con la vista; le strutture sonore che produceva erano quelle che percepiva con l’udito. Ora, dal 1950 circa l’informatica, talvolta aiutata dalla cibernetica, di alcuni sintonizzatori, ha permesso di creare facilmente oggetti sonori e oggetti visivi mediante dei processi dove la percezione è a lungo abbandonata.
Nulla impedisce più di costruire immagini o suoni a partire da serie numeriche o da topologie e da geometrie di ogni tipo. Come Arena in pittura, come Xenakis in musica. E perfino da quest’ultimo, di produrre suoni per conversione di immagine e immagini per conversioni di suoni. Non vi è allora nessuna garanzia che queste strutture saranno visibili e udibili in quanto strutture.
Situazione paradossale dove l’essere umano si compiace di generare oggetti a lui più o meno sconosciuti. Il matematico per primo ha fatto questa esperienza, quando ha costruito, intorno al 1850, delle geometrie in cui da un punto preso fuori d’una retta postulava a questa retta una infinità di parallele (Lobatchevski) o nessuna (Riemann). O ancora dopo che delle strutture topologiche hanno generato la “bottiglia di Klein”, indisegnabile, e anche poco rappresentabile mentalmente. Bisogna soffermarsi un istante sulla musica programmata, perché il suo caso è illuminante. La musica è stata sempre l’arte in cui Homo, (da quando ha saputo emettere dei suoni opposti, poi dei toni ) ha costantemente creato gli oggetti i più vicini al suo corpo ritmato e alla sua intimità cerebrale.
Quando, verso il 1920, furono composte strutture seriali dodecafoniche, poi verso il 1950 strutture sonore “concrete” ,”sintetiche”, “aleatorie”, il musicologo francese Jacques Chailley anche se molto esperto di tutte le invenzioni musicali del mondo, espresse lo smarrimento generale: che cosa era una musica in cui le strutture si sottraevano all’orecchio del suo uditore, se non negativamente (questo che non è né tonale né pentatonico, né …)?. Quando i pittori e gli scultori produssero le loro prime opere programmate, la domanda poteva formularsi negli stessi termini: che cosa è una pittura in cui percettivamente la struttura sfugge come struttura al suo osservatore, e anche ampiamente al suo creatore una volta che essa è stata ultimata? Nello stesso tempo ch’essa poneva la domanda, la musica indicò, l’inizio della risposta. Se nessun orecchio umano percepisce direttamente le serie dodecafoniche de l’ Opus 27 di Webern, né gli slittamenti di fasi suscitati da Come out to show them oppure For four organs di Steve Reich , né le parti dell’aleatorio e del moiré di John Cage e di La Monte Young mentre afferra subito una modulazione di Beethoven e una esasperazione cromatica di Wagner, quelle nuove produzioni sonore colpiscono tuttavia alcuni uditori, e anche musicalmente. Ciò è dovuto al fatto che esse generano la materia di ogni esperienza artistica estrema, effetti di campo “eccitati “. D’altra parte, simili strutture, nello stesso tempo accettate e rifiutate, ci destabilizzano nelle nostre comprensioni immediate e ci fanno oscillare talvolta dal Cosmos-Mondo all’Universo, cioè a dire dall’ordine tradizionale in continuità con le nostre percezioni, - come lo esprimono bene le parole “cosmos”,” mundus”, ma anche “dharma”,”tao”, - ad un processo soltanto orientato - verso - l’uno (versus unum, universum ). Una simile situazione si è presentata nelle arti visive. Secondo tre strade che non è inutile abbracciare nel loro insieme per meglio situare il lavoro di Arena, e coglierne il merito.
a) Il disegno controllato col computer ha fatto vedere graficamente certe equazioni relativamente complesse, e numerose istituzioni universitarie organizzarono esposizioni su questo tema. Nello stesso tempo certi matematici concepirono dei grafismi che suggerriscono la quarta dimensione e fanno “ intuitizionare ” (Bouligand) qualcosa degli spazi a n-dimensioni.
Nei due casi, l’interesse fu limitato, perché gli effetti di campo così creati erano fissativi (gestaltisti), eventualmente dinamici (cinetici), ma mai veramente “eccitati”.
Soprattutto, queste visualizzazioni restavano relativamente povere in rapporto ad alcune figure che caratterizzano il lavoro della matematica pura. Così i pochi grafici che , nell’edizione di Princeton della Stabilità strutturale e morfogenesi di Renè Thom, illustrano le sette catastrofi elementari della topologia differenziale sono stati uno dei più importanti eventi intellettuali del XX secolo per i lumi che gettano sull’embriologia, la linguistica, i meccanismi del pensiero in generale. Ma questo non riguardava l’arte, come insiste Renè Thom, che ha sempre perfettamente notato che ciò che fa la specificità e anche il privilegio intimidante dell’arte sono degli stati “eccitati” così complessi e così fugaci ( “sfuggenti al metabolismo cerebrale “) che sfidano le coordinate dell’analisi matematica .
Un’altra strada della programmazione fu esplorata dall’aleatorio dei moirés. Quelle di Morellet generate da slittamenti controllati di griglie sovrapposte, come quelle dei traversabili di Soto, hanno stimolato l’alea e l’hanno allo stesso tempo tanto rallentato che vi si producono effetti di campo percettivo-motorio eccitati e trattenuti che appartengono all’arte.
Una terza via dell’immagine programmata sarà stata la via modulare , che Vincenzo Arena ha rappresentato in modo particolarmente sistematico e illuminante .
Affinché la modularità sia messa in evidenza egli l’ha realizzata dapprima tramite dimensioni e spaziature di rettangoli neri su bianco o bianchi su nero, con esclusione di cerchi troppo fluttuanti. Furono così avviati negli anni 60, ciò che si potrebbero chiamare spazi di attraversamento, portatori di effetti di campo percettivo motorio fissativi, dinamici, ma raramente eccitati, anche in ragione della loro apertura.
E’ per questo che all’inizio degli anni 70 Arena si è rivolto verso il colore? Prima in una semplice trasposizione: i suoi fondi divennero verdi o bleu, i suoi rettangoli divennero rossi o inversamente. Così agli effetti di campo dinamici delle serie di rettangoli modulati si uniscono al fervore contrastante di complementari molto saturi (come quello del verde/rosso del Love d’Indiana) e vi realizzarono una prima eccitazione.
Infine, una tappa decisiva fu varcata quando, intorno al 1975, Arena decise che sarebbe stato il colore come colore ad incarnare le sue serie modulari. Ciò supponeva una gamma di colori. Questa fu il Munsell Book of Color. Munsell vi distingue 10 tinte, esse stesse sotto-distinte in 4 sottotinte, ogni volta con una decina di luminosità e saturazioni. Sulle pagine si dispongono alcune migliaia di sfumature a partire da un asse dei neutri, secondo la panoplia delle loro complementarità, così bene riconosciute un secolo prima dalla Loi du contraste simultané des couleurs de Chevreul. Nel 1943, Newhall Nicherson e Judd verificarono e corressero sulla base di migliaia di osservazioni la conformità della spaziatura delle gradazioni Munsell con le nostre percezioni cromatiche in modo da rispondere alle discriminazioni visuali medie dell’Homo d’oggi.
Da quel momento, per lo spirito modularizzante di Arena la gamma del Munsell ebbe le virtù di una tastiera musicale. Soltanto, le fasi sonore che facevano le gamme toniche e diatoniche della musica, erano qui sostituite dalle fasi visive derivanti dai tassi di tinta-luminosità-saturazione. E’ da questi tassi che deriverebbero le serie modulari. La figura degli elementi resta il rettangolo, per la sua neutralità.
La combinatoria dei moduli fu così accresciuta considerevolmente, quasi infinitamente. Ma soprattutto essa cambiò di natura. Perché simili elementi colorati sono atti a far scattare e anche conservare, attraverso le loro complementarità, effetti di campo percettivo-motorio non soltanto fissativi e dinamici, ma anche eccitati complessamente e sottilmente. Effetti allo stesso tempo aperti e conclusi (non chiusi), e anche innescanti e sostenenti uno spazio quasi puro, cioè a dire sfuggenti alle direzioni, dimensioni, gravitazioni privilegiate. (Si ricorderà che lo scopo del dodecafonismo era stato pure di sfuggire alle direzioni, dimensioni, gravitazioni privilegiate inerenti alla tonalità classica.).
Ma torniamo al nostro problema di partenza. Perché queste strutture modulari colorate non sono visibili dal loro spettatore in quanto strutture; come le strutture musicali di Ligeti, contemporanee, non sono udibili in quanto strutture dal loro uditore. Tuttavia ad Arena piace parlare dei suoi oggetti visivi come di segni. Certamente sono dei segni che escludono ogni riferimento descrittivo, narrativo, simbolico. Ma non per questo sono privi di senso. Ne hanno tre essenziali.
Innanzitutto, come la musica di Steve Reich e Ligeti, essi fanno oscillare il loro fruitore dal Cosmos - Mondo all’Universo, di cui essi fanno intuire alcuni principi molto generali, per esempio che la variazione, con le sue virtualità e i suoi vincoli, conta molto più che la selezione.
opera - 1 - 1996b
D’altra parte, la frequentazione di strutture nello stesso tempo conosciute e segrete mette in uno stato di decentramento fecondo. A questo riguardo non è inutile aver letto alcuni progetti cifrati di Arena, comprendenti dati e calcoli, come è illuminante sfogliare uno spartito di Ligeti. Riconoscere che si possono scrivere e leggere strutture che non si è in grado di percepire quando esse prendono corpo è un grande passo nella saggezza.
Non si dimenticherà poi che, per quanto siano programmate, queste produzioni consistono in un perpetuo alternare tra ciò che dapprima è soltanto progettato confusamente ed i risultati ottenuti alla fine, ma anche ad ogni tappa di realizzazione, dove l’artista incontra delusioni, soddisfazioni, interrogazioni, spostamenti. Come la matematica, più formalizzata, resta una scrittura sperimentale, nell’attesa della deduzione dei suoi teoremi per verificare la coerenza e la fecondità dei suoi assiomi, così l’arte programmata è una fabbricazione sperimentale ed anche sperimentata.
Al punto che ci si chiederà perché partire da un programma di strutture preliminari poiché in ultima istanza è la percezione che decide. Perché abbandonare il protocollo tradizionale di Piero della Francesca, di Beethoven, di Mondrian o anche di Albers, i quali si installavano di colpo nel percettivo, contentandosi di stimolarlo in seguito con le strutture? La risposta è legata ancora una volta nell’oscillazione dal Cosmos - Mondo all’Universo, che ha occupato tutto il XX secolo. Per uscire meglio dai nostri antropomorfismi, per afferrare qualche cosa dei morfismi universali, non è forse eccessivo mettersi a volte nell’ inconforto esistenziale di pensare prima una struttura pura, una struttura che va dove noi non sappiamo, che sfugge ai nostri “ordini” naifs chiamati cosmos (microcosmos), dharma, tao. A costo, per finire, e anche già strada facendo, di non trattenere di questi viaggi “altrove” che ciò che ci interessa, ciò che eccita le nostre percezioni. Il francese dice che non bisogna tentare Dio. Volendo aprirsi all’Universo, l’arte programmata è un’arte “tentativa” nel senso dell’aggettivo inglese “ tentative “. Le sorprese percettive lo inducono anche ad ultimi aggiustamenti di sfumature alla fine dell’esecuzione.
Infine, i programmi di Arena hanno ancora un senso in quanto che risultano dal fantasma fondamentale di un organismo singolare. Sulla gamma del Munsell, Vincenzo Arena scrive sicuramente programmi astratti, ma sono programmi che corrispondono ai suoi desideri. Per esempio, non lo vedrete mai optare all’inizio per uno squilibrio potente che tenterebbe di riequilibrare in seguito, come è il caso in Schomberg e il primo Boulez ( e già in passato in Piero della Francesca e Uccello, e il Mozart della prima battuta del Concerto Köchel 466 ). Al contrario, le sue scelte iniziali si reggono nelle complementarità d’equilibrio, equilibrio all’interno di esse stesse, e anche in rapporto con le altre, e le tensioni senza le quali non ci sono stati eccitati, dunque d’opera d’arte, intervengono in lui soltanto dopo, nella maniera di spostamento di sganciamento ( modulari ) controllati progressivi .
E così non si abbandona mai il silenzio. O poiché si tratta di spazio, la suspense. Come ogni artista, l’artista programmatore, ha un fantasma fondamentale, un “ soggetto artistico “ che si può seguire in ciascuna delle sue opere concluse. Qui la lingua italiana permette un’assonanza suggestiva: spazio, silenzio, sospeso.
Ci saranno stati nel XX secolo, in Italia, dei pittori per i quali viene in mente l’aggettivo “metafisico”: Morandi nella prima metà, Arena nella seconda.
Questa volta, il destino - frutto di esistenza singolare, rinvia anche a due mestieri espliciti di qualcuno che fu simultaneamente un artista e un ingegnere. Durante tutta la sua esistenza, Vincenzo Arena si è tenuto tra i due estremi dei suoi oggetti visivi modulari molto ridotti, e giganteschi complessi petroliferi in Belgio, Francia, Turchia, Singapore e Iran in cui ha distribuito le tubazioni e le apparecchiature in modo da rispondere il più giudiziosamente alle esigenze meccaniche, chimiche, economiche delle loro costruzioni e del loro funzionamento.
Tra questi estremi, alcune parole chiave s’impongono : topologia e processo. Topologia, cioè la pratica più astratta ed anche la più concreta dello spazio. Processo, cioè la pratica più astratta ed anche la più concreta del tempo. Nelle masse enormi di una pianta petrolifera come nell’imponderabilità di una serigrafia o di un quadro. Si noterà in questa occasione il ruolo essenziale di una chiave di serratura.
Quella che, durante una vita, alla fine della giornata chiuse l’ufficio d’ingegnere e aprì lo studio d’artista. Prima di fare il mattino seguente l’operazione inversa. Curiosamente, in quel cervello, i due campi si fecondavano, ma non si confusero mai. Forse perché non si trattava di passare da un settore ad un altro . Ma soltanto di vedere uno stesso settore, essenziale, fondamentale, da due punti di vista differenti .
Henri
Van Lier marzo
1998
opera - a - 1976b